Tra le "pieghe dell'isola - Un liberale lucano

Il Castello D'Avalos trasformato in Carcere borbonico
   Istituito nel 1830-31 mediante adattamento del Castello d’Avalos, il carcere di Procida ospita durante tutto il periodo risorgimentale numerosi detenuti “liberali”. È tra costoro Francesco Leo, nato nel 1811 a  Chiaromonte, in Lucania, da Emmanuele e da Regina Grandinetti.
Liberale antirepubblicano, autore di numerosi componimenti, sia in versi (A Gioacchino Labollita, A D. Francesco Castronuovo per la morte di una sua bambina; Epistola in versi a Fortunato Forcignanò; A Francesco Castronuovo pel regalo di un gattino che mi aveva chiesto), che in prosa (In morte di Alessandro Sole; In morte di Prospero Fortunato; La Manna miracolosa di San Gaetano Tiene Patrono di Caldera; Il Giubbileo; La Vergine del Vangelo), Francesco consegue la laurea in Giurisprudenza a Napoli il 30 agosto 1834 e sposa Carolina Costanza, dalla quale ha ben undici figli.

Francesco Leo

           
    La sua presenza nel Bagno penale di Procida è attestata nel 1853; qui i forzati sono tenuti legati a coppie mediante le «maniglie» (semicerchi di ferro) di una catena del peso di 17 rotoli (= kg. 15,147), che i numerosi camorristi, che affollano il carcere, provvedono a togliere loro la sera, per rimetterle al mattino, con la complicità degli «aguzzini», illecitamente ricompensati con dazioni di danaro. Le condizioni igieniche del luogo di pena sono deplorevoli: nei letti alberga ogni specie d’insetti e per i bisogni corporali si dispone di una tinozza di legno priva di coperchio, che viene svuotata ogni ventiquattr’ore; nonostante ciò, egli riesce a sfuggire all’epidemia di colera scoppiata a Napoli in quel periodo e propagatasi anche a Procida.
            I detenuti politici, che per l’alimentazione ricevono ogni giorno un pane scuro e una minestra di fave e soltanto la domenica un piatto di pasta e un pezzo di carne lessa, celebrano qui il Natale del 1853 con un «fraterno simposio, fatto a spese comuni», durante il quale Leo legge i versi del suo componimento poetico dedicato «Ai concaptivi Lucani nel bagno di Procida», che così comincia:

Cittadini d’un Tempo, or galeotti,
Che scampati al capestro e a la mannaja,
Come volle il destin, foste tradotti
In questo pandemonio a centinaia,
E avete i piedi allividiti e rotti
Dal poderoso ceppo, il qual vi appaja,
Le membra affrante e il volto disparuto;
Cittadini d’un tempo, io vi saluto.

e ch’egli porterà con sé fuori dal carcere al momento della liberazione, cucito nella fodera del cappotto. Le «Note postume» al poemetto, ch’egli stesso redige nel novembre 1891, costituiscono una vivace testimonianza della vita quotidiana nello stabilimento carcerario dell’isola.
Qui a capo degli «aguzzini» è il capitano Rescigni, già comandante della Gendarmeria nel Lagonegrese, ch’era stato ospite del padre del Leo a Chiaromonte nel 1842-43, ma che non lo riconosce (o finge di non riconoscerlo) e lo redarguisce, quando altri suoi versi patriottici («In occasione delle onoranze funebri rese ai caduti nelle cinque gloriose giornate di Milano», scritti nel marzo 1848) sono rinvenuti nella sua cella, ma arrossisce quando egli gli ricorda l’episodio del decennio precedente e si limita a sequestrare lo scritto, senza infliggergli punizioni: e il Leo può ben dirsi fortunato, poiché in un’altra occasione egli stesso ha assistito alla fustigazione di un condannato sulle natiche, poi cosparse di sale e aceto, prima che il medesimo fosse accompagnato all’ospedaletto.
Dopo la liberazione, Francesco fa ritorno in famiglia, a Chiaromonte, dove si spegnerà nel 1894.
                                                                                                                                                                                                                                                                                        Sergio Zazzera

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