IL MIO AMICO ALBANESE CEZAR KURTI

Cezar Kurti (1935-2013)

Era una fredda mattina di febbraio del 1992. Mi trovavo al Collegio dei Traduttori Letterari di Procida, a palazzo Catena e stavo lavorando al computer. 
Ero da solo, la Direttrice non era ancora arrivata.
Un vigile urbano mi chiama: “C’è uno straniero alla porta, cerca la Direttrice!”
Mal vestito, con una valigia di catone, gli occhi spauriti, un viso bruciato dal sole e segnato da profonde rughe, mani callose e ruvide. Lo accolgo, gli offro una sedia.
Sono Cezar Kurti, mi dice, vengo dall’Albania, ho fatto un lungo viaggio via terra, sono molto stanco.
Albania! Quel nome mi porta indietro nel tempo. Mio padre aveva fatto la guerra in Albania e sempre mi aveva raccontato: “Se le famiglie albanesi non ci avessero soccorsi nella tragica e desolata ritirata, saremmo tutti morti per gli stenti e per il gelo. Ci hanno rifocillati, dato vestiti e scarpe  per affrontare la neve e il gelo e giungere così al porto di Tirana.”
Sentii subito che c’era un debito di riconoscenza da pagare. Dovevo farmi prossimo di quell’uomo, sentire il suo dramma umano, aiutarlo.
Cercava un lavoro, aveva moglie e due figli, sperava nell’Italia. Conosceva 4 lingue, aveva insegnato letteratura all’Università ma inviso al regime era stato mandato nelle miniere di rame per lunghi anni. Sognava di tradurre e pubblicare l’Inferno di Dante e i Sonetti di Shakespeare e pubblicarli.
Stette al Collegio tre mesi, ma non riuscì a trovare un lavoro. Con famiglie amiche gli permettemmo di sostare ancora mesi in italia. Gli feci sentire il calore della famiglia. Ogni domenica era a casa nostra. Gli diedi i primi rudimentali insegnamenti al computer.
Mi recai con lui a Napoli presso qualche casa editrice ma senza successo.
Non si rassegnò  e tentò l’espatrio in America presso uno zio emigrato molti anni prima. Lo accompagnai all’Ambasciata albanese di Roma. Ebbe il visto.
Il giorno della partenza ero con lui a Napoli. Mi chiese di poter visitare la Biblioteca nazionale. Poi una pizza e infine alla stazione. Ci stringemmo in un abbraccio. Nel ringraziarmi piangeva e io con lui.
In America il suo sogno si è avverato. Ha trovato lavoro ed ha richiamato moglie e figli.
Cezar è rimasto  come un punto fermo nella mia esperienza. Egli ha aperto il mio cuore all’umanità e da quella volta  è nata in me fortemente una convinzione: non può esserci uomo che mi sia estraneo.

Pasquale Lubrano Lavadera


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