Procida, "L'isola di Arturo" di Elsa Morante
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Elsa Morante (1912-1985) |
Era il dicembre del !957 quando
sulle pagine de "Il giornale di Procida"
diretto dal Sindaco Mario Spinetti, comparve per la prima volta un articolo a
firma di Matide Casalbore che parlava del romanzo "L’isola di Arturo" di Elsa Morante. Riportiamo alcuni brani di quella recensione che
annunziava ai procidani tutti che Procida, dopo "Graziella" di Lamartine, era
nuovamente protagonista di un romanzo scritto da una delle più grandi
scrittrici italiane, che tanto amò l’isola da desiderare che le sue ceneri
fossero disperse nel suo azzurro mare.
“Che L’isola di Arturo è Procida, lo dice apertamente Elsa Morante
l’autrice di questo romanzo vincitore del Premio Strega 1957 (romanzo forte, a volte fino alla durezza,
umanissimo e amaro, che un critico ha definito “virile” se non fosse sempre
improntato di una misura, di una contentezza tutta femminile). E tuttavia ci
avverte che dei luoghi nominati nel libro “non si intende dare una descrizione
documentaria, in queste pagine dove ogni cosa, a cominciare dalla geografia,
segue l’arbitrio dell’immaginazione”.
Ma il sottotitolo “Memorie di un
fanciullo” già ci ha detto questo. Quella meravigliosa isola, infatti, che è,
per ognuno di noi, la fanciullezza, ci appare, quanto più ce ne allontaniamo,
chiara e distinta in tutta la sua realtà; ma pur sempre arricchita della
meravigliosa geografia della nostra
innocenza; e sempre il suo colore e, oserei dire, il suo sapore, sono quelli che
le donò la nostra immaginazione, la nostra fantasia di fanciulli.
“A Procida le case, da quelle
numerose e fitte giù nel porto, a quelle rade su per le colline, fino ai
casolari isolati, appaiono da lontano proprio simili a un gregge sparso ai
piedi del Castello. Questo si leva sulla collina più alta (la quale tra le
altre collinette sembra una montagna) e, allargato da altre costruzioni
sovrapposte o aggiunte attraverso i secoli, ha acquistato la mole di un
castello gigantesco. Alle navi che passano al largo soprattutto la notte, non
appare di Procida se non questa mole oscura, per cui la nostra isola sembra una
fortezza”.
Così si esprime questo fanciullo
Arturo, ricco di fantasia come un poeta e privo di ogni nozione di vita sociale
come un piccolo barbaro.
Sua madre è morta nel darlo alla
luce, suo padre che pure egli sconfinatamente ama, fa rare apparizioni
nell’isola…ed egli, Arturo vive in una immensa casa, aureolata di fosche
leggende di spiriti e di anime dannate,
con la sola compagnia di un rozzo e affezionato colono ed una cagnetta; e
l’isola fa da sfondo, ma mi correggo: l’isola è una cosa viva, una cosa di
Arturo come la sua cagnetta e il suo”balio”; non paesaggio, personaggio
anch’essa.
Nessuno si è curato di dare ad
Arturo un’educazione, una religione e nemmeno di parlargli di Dio; eppure da
sua madre, sepolta sull’isola, gli viene un senso quasi religioso, e il cielo
stesso dell’isola è, a suo modo, il suo Paradiso…A questo ragazzo barbaro e
poeta sono riservate, nel breve giro dell’infanzia alla fanciullezza,
esperienze inattese e profonde – inferni di gelosie e di abbandono e fugaci
elisi di grazia – fino ai misteri più torbidi, fangosi e quasi disumani. Ma ogni sua gioia o dolore, disperazione o ebbrezza
s’accende dei colori del paesaggio, del mare e del cielo.
Infine, deluso dalle ultime più
crude esperienze (la donna che egli ama è vietata, irragiungibile…) ma
soprattutto stroncato dall’abbandono di suo padre…egli sente che deve lasciare
l’isola, voltando per sempre alle spalle la sua fanciullezza.
Matilde Casalbore
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