Procida: Fucina di artisti grazie a Don Michele Ambrosino

Don Michele Ambrosino (1924-2015)
Scrive lo scrittore inglese Graham Greene: "Scrivere è una terapia, a volte mi domando in quale modo tutti coloro che non scrivono, non compongono musica, non  dipingono... riescono a sottrarsi alla pazzia, alla malinconia, al timor panico che sono impliciti nella situazione umana."
E' il rischio che ha sempre corso la gente della nostra isola anche per le anguste e asfittiche situazioni protrattesi per secoli. Come altre volte ho scritto "Procida ferita dalla Storia ma salvata dalla letteratura e dall'arte". 
Infatti se non ci fosse stata l'arte in tutte le sue espressioni: scrittura, pittura recitazione musica scultura... la vita a Procida, che di per sé non era stata mai facile, avrebbe fatte molte più vittime tra la sua gente.
Non l'aveva capito la nascete politica democratica del dopoguerra ancora infarcita di dettami dittariolali, in uno sconto becero tra le parti avverse da mettere i brividi, diseducando in tal modo tutta una grande fascia di popolazione e deteriorando la crescita di una pur debole vita nel rispetto e nel dialogo costruttivo.
Lo aveva invece capito, primo di ogni altro, un piccolo prete di campagna, Don Michele Ambrosino, nato e vissuto tra i contadini e i pescatori della Chiaiolella, che tornato nell'isola dopo anni di insegnamento al Genovesi a Napoli, capiì subito il grande pericolo che i giovani e l'intera popolazione correvano, in un tessuto sociale impoverito da dittatura, guerra e  dacalunniosi litigi dai balconi, in una chiesa anchilosata dietro fumi e paramenti e processioni e liturgie asfissianti.
Ma non infierì, né accusò, né fece proclami: operò seguendo la sua coscienza,  comprendendo che il prete non sceglie la parrocchia ma sceglie Dio e Dio gli chiede di aiutare gli uomini ad essere fratelli, ad amarsi come lui ci aveva amato, a realizzare il grande disegno della Chiesa: fare di tutta l'umanità una grande famiglia. 
Il prete chiuso in sacrestia a fare l'ufficiale dei sacramenti era per lui la caricatura della vocazione, per cui aprì la sua chiesa ai giovani allo sport alla cultura all'arte e diede responsabilità a tanti. 
Nasceva nel 59 la prima fiera del libro,  il primo circolo di lettura per i giovani, la lotta alla povertà nel mondo, la proiezione di film di valore: mostrò a tutti La Strada di Fellini e Il Posto di Olmi, promosse mostre di pittura, occasioni uniche per favorire quei rapporti di rispetto di comprensione e di amore che sono alla base di ogni processo di evangelizzazione e che anticipavano il Concilio Vaticano II.
Sconfisse in questo modo quel clericalismo imperante nella chiesa locale, che voleva il prete chiuso negli angusti confini di una parrocchia sclerotica e lontana dal mondo.
Offrì in tal modo l'esempio a tutti scrivendo libri ( fu il primo scrittore del dopoguerra) e favorendo la nascita di tanti giovani scrittori sull'isola, invitò nel 1970 il comlesso internazionale Gen Rosso che proponeva il Vangelo attraverso la musica, invitò i più importanti nomi del giornalismo e della letturatura italiana nella Fiera del libro, quando Procida ancora sonnecchiava nella polvere del passato e non aveva neanche una libreria. 
Portò avanti le grosse campagna contro la fame con Raul Follerau e Mani tesi e apri la sua chiesa ai problemi che affligevano Procida e il mondo, primo fra tutti il rispetto dell'ambiente e la corruzione nella vita politica.
Parlò apertamente del problema del razzismo e della tragedia dell'antisemitismo e invito i giovani che lo seguivano ad essere accoglienti e aperti con tutti, indicando come esempio la figura di Martin Luther King. Affrmò per primo che la razza umana è una sola e che siamo tutti fratelli, bianchi, neri e gialli.
Non ne uscì sempre vittorioso: ci furono politici e sacerdoti che silenziosamente, ed anche apertamente, lo avversaron, ma lui non indietreggiò e perdonò sempre, aveva scelto di seguire Gesù e quindi pronto anche a soffrire l'abbandono sulle acroce. Fioccarono calunnie amare che lo provarono nel fisico e nell'anima. 
Gli ultimi anni furono anni di pace: la sua gioia più grande fu aver dato alla chiesa tanti giovani nelle varie vocazioni, sacerdotali, politiche e familiari e con loro accanto ha vissuto gli ultimi anni.
La gioventù di oggi deve molto a quest'uomo  che non era diventatao "prete per dire messa o celebrare i sacramenti", ma era un uomo che aveva capito il grande disegno di rinnovamento sociele e spirituale che Gesù aveva proposto all'umanità e per questo disegno aveva scelto di essere sacerdote.  
Sacerdote di una Chiesa quindi a servizio dell'uomo, di ogni uomo, religioso o di convinzioni non religiose, per favorirne la sua crescita umana e spirituale e e non una Chiesa clericale di bassa lega, arroccata nel suo piccolo potere e profondamente diseducante perché lontana dalla vita.

Pasquale Lubrano Lavadera

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